Il tempo dell’arrivo
Marco Carsetti

Nabad aad filaneysid nahdin ma laha
mentre cerchi la pace non senti paura
proverbio somalo

Sei nato e cresciuto a Mogadiscio dentro la guerra civile, dalgalka sokeeye si dice in somalo.
Lo scrittore Nuruddin Farah nel suo romanzo Legami così spiega il significato di questa espressione: “uccidere un intimo”.
Hai gli stessi anni della guerra ma sei cresciuto come tutti cresciamo, non te l’hanno rubata l’innocenza. E se è vero che perdiamo l’innocenza quando ci domandiamo per la prima volta: “sono amato?” (W.H. Auden, Poesie), allora tu devi essere stato amato e forse è qui in Italia che ti sei fatto per la prima volta questa domanda. In fondo a scuola di italiano si viene principalmente per questa ragione: “sentirsi ancora amati lontano da casa”, oppure come hai detto un giorno: niidda aa laguu dhisaa, “a scuola ti costruiscono l’animo”.
Sei ancora molto giovane, hai poco più di 20 anni, ma sei equilibrato, maturo, coscienzioso, permeabile, curioso, concentrato, paziente, determinato, socievole, il tuo sguardo ha mantenuto la grazia della scoperta.
Hai visto la guerra, il deserto, il carcere libico, il mare, l’Italia delle commissioni e dei centri di identificazione ed espulsione, hai visto il razzismo dei controllori sugli autobus e quello dei centri di prima accoglienza, eppure stai crescendo come tutti cresciamo e ora sei qui tra noi come un ragazzo di vent’anni.
Ti hanno chiamato clandestino, forzato del deserto e del mare, richiedente asilo, rifugiato, vittima, ma sei un ragazzo di vent’anni a cui non piacciono queste etichette.
E a chi piacerebbe essere visto solo in quel modo?
Sei arrivato a scuola da un centro di prima accoglienza, un centro C.A.R.A. (centro di accoglienza richiedenti asilo), lungo l’autostrada Roma-Firenze, vicino al casello di Fiano Romano, sei arrivato a scuola dal centro di Castel Nuovo di Porto gestito dalla Croce Rossa. Ogni giorno hai affrontato un lungo viaggio senza biglietto per arrivare, pur di uscire, pur di aprirti una porta altrove. Hai detto durante uno dei nostri cerchi narrativi: “Davanti alla porta c’è la soglia, noi siamo quelli che una volta arrivati siamo sulla soglia e non sappiamo bene cosa fare se entrare piano piano, se spingerla con forza, se voltarci e andare via. Al campo, prima di noi, non si faceva niente, nessuno studiava, nessuno andava a scuola, ma sapevamo che prima o poi la porta del centro si sarebbe chiusa e ci dovevamo preparare a questo giorno. La cosa a cui pensavo sempre era di uscire dal centro prima che si chiudesse quella porta, e così abbiamo aperto la porta della scuola. Oggi sappiamo un po’ di italiano, e l’italiano è una porta. La porta reale si può trovare ma ci vuole tempo, e bisogna imparare il modo di aprirla, bisogna trovare le chiavi. I nomadi apparentemente non hanno una porta e quando qualcuno viene a trovarti non bussa, ma tutti sanno che la porta c’è ma non si vede, la porta bisogna aprirla con tenacia ma bisogna conoscere i codici e i regolamenti delle porte. La scuola può essere una porta d’ingresso o un’uscita di sicurezza.”

E così era a Mogadiscio quando andavi a scuola. La scuola era la tua uscita di sicurezza dalla guerra. La scuola si spostava di edificio a seconda di dove infuriava la battaglia tra clan e andare a scuola era sempre più difficile. Infuriava la battaglia e poi si placava e quando si placava dicevi che tornava la speranza, ma poi di nuovo un’altra battaglia e la scuola chiudeva e quando la battaglia si placava tornava la speranza e tornavi a scuola e così fino all’università.
Ma sei stato amato e questo si vede.
Il tuo migliore amico era tuo nonno e quanto ti abbiamo domandato: “qual’era il posto che preferivi quando stavi a Mogadiscio?” Hai risposto scrivendo: “Il mio posto a Mogadiscio era a casa di mio nonno perché mi sentivo tranquillo quando stavo in quella casa, perché nonno era molto generoso e gentile con tutti gli umani, perché aiutava tutti i viandanti che passavano vicino la sua casa, perché insegnava ai figli poveri delle famiglie povere di quella zona, perché li aiutava a risolvere i problemi”. Tuo nonno è stato maestro del corano per settantacinque anni. E quando stavi a casa sua la sera recitavi una preghiera che si chiama “al tramonto” per ringraziare Dio che ti ha lasciato ancora vivere nonostante ci siano tante persone che si sono svegliate ma non sono mai tornate a casa, anche se loro “non sapevano questa cosa e forse pensavano di fare ancora tante cose e invece la loro vita era già finita”. E poi sempre a casa di tuo nonno ti svegliavi all’alba e facevi una preghiera che si chiama “l’alba” per ringraziare Dio perché si dice: “il tempo del sonno è come un piccolo morire” e perché ci sono tante persone che in Somalia sono andate a dormire ma non si sono potute svegliare un’altra volta. Due giorni dopo che a scuola scrivevi di tuo nonno a Mogadiscio, lui è morto a causa di un incidente stradale, lo hanno trasportato ferito in Kenia, a Nairobi, ma dopo l’operazione, di ritorno in Somalia, lui non ce l’ha fatta e tu ci hai detto: “Ho scritto di mio nonno due giorni prima che morisse, sul foglio c’è la data: 22/01/2009, ma non mi preoccupo perché lui ha fatto una giusta vita”. E poi qualche settimana più tardi, sempre a scuola in un altro lavoro hai scritto: “il mio amico era mio nonno, mi raccontava il mare e gli esseri che vivono, mi raccontava il cielo, la luna, il sole e le stelle, il posto dove dormiva era morbido e i suoi vestiti bianchi, mio nonno si chiamava Abdullahi, ma aveva un soprannome famoso: ‘mu'allim (maestro in arabo) Jokof’.

Sei cresciuto come tutti cresciamo e avevi una fidanzata e una volta che avete litigato non potevi fare a meno di incontrarla, ma era sera e c’era il coprifuoco, potevi arrivare da lei ma sarebbe stato difficile tornare, comunque sei andato lo stesso come fanno i fidanzati. Il tuo e il suo quartiere erano lontani e dopo le otto non c’erano più gli autobus ma soprattutto c’era un posto di blocco dove gli ubriachi sparavano a chiunque passasse da quelle parti. Così ti eri fermato a pensare “come vincere a incontrare con la mia fidanzata, a parlare sul disaccordo” perché potevi andare da lei solo dopo il tramonto. Finalmente dopo tanti pensieri improvvisamente hai avuto l’idea di assomigliare a quelli del posto di blocco e così hai comprato delle sigarette perché ti aspettavano gli ubriachi con le armi. Hai fatto l’ubriaco come loro, ti sei strappato un po’ la camicia e hai camminato come camminano loro, hai anche fumato una sigaretta, era la prima volta e anche l’ultima che fumavi. Allora sulla strada hai incontrato uno di loro che ti ha detto: “Fermo!” e tu pronto hai risposto: “che c’è, adesso anche tra di noi?” Parlavi come parlava lui e muovevi il corpo come lo muoveva lui e alla fine ti ha detto: “no… ok, qalaaye (vuol dire macellaio ed è il soprannome che usano ai posti di blocco)”. E dopo qualche metro hai incontrato un altro ragazzo e tu subito hai fatto: “qalaaye” e così hai continuato con la sigaretta in bocca e la camicia strappata. Alla fine sei arrivato a casa, ma è un ricordo che non puoi dimenticare così come hai scritto: “le difficoltà fanno gli uomini.”
Sei cresciuto nella guerra civile eppure come noi sei cresciuto e ora hai vent’anni.

In quante case di fortuna, temporanee, hai dovuto traslocare aspettando che i combattimenti finissero prima di tornare alla tua prima casa, la home. Una volta che a scuola abbiamo lavorato sul verbo sentire hai scritto: “nella notte profonda sento il rumore dei proiettili, penso ‘dove dobbiamo traslocare?’ Sento un grande freddo nel cuore, un dolore mi prende: la speranza di pace.” E poi hai aggiunto: “Puoi cambiare casa ma è difficile trasferire la tua home.”
Ripeti spesso che a Mogadiscio quando esci di casa non sai se torni, e così un giorno tuo fratello più grande è uscito e non è più tornato, un altro giorno è uscito di casa tuo padre e non è più tornato, ma tu sei cresciuto come tutti cresciamo, poi un giorno tua madre ti ha detto: “che fai ancora qui? Scappa, esci, lascia, parti, abbandona, fuggi, vattene”. Oppure sei stato tu che un giorno hai detto a tua madre: “io vado via”. Oppure era il bufis?

Bufis in italiano è gonfiare, pompare, è una parola che ha a che fare con l’aria. E’ una cosa che come l’aria non si può prendere, non si può fermare. “Noi somali lo usiamo per i palloncini, quando gonfi il pallone, la ruota della macchina, fai bufis. Usando una metafora potremmo dire: gonfiare la realtà.
E’ una cosa che si aggiunge dall’esterno, per esempio quando con gli aerei spargono il veleno contro le cavallette si dice bufis. In somalo si usa questo termine per dire la smania di viaggiare, di partire, è come se qualcuno ti ha messo dentro questa smania, ma non eri pronto, prima non ce l’avevi dentro, poi qualcuno ti ci ha fatto pensare e ti ha contagiato. E’ qualcosa più grande di te che qualcun altro ti ha ‘spruzzato’ addosso.
Anche per quella persona che sta in mezzo alla gente poi si sente che ha la testa fuori, una persona che è presente con il corpo ma assente con la mente. Così si dice ‘Ma che hai? Ti ha preso il bufis? Sei malato di bufis?’ E c’è anche un altro caso, le persone che fanno tante cose, che non stanno mai ferme, sempre in movimento, che non si riposano mai a casa, sempre escono, entrano, non stanno mai ferme, anche in quel caso si dice ‘perché non stai seduto? Che c’hai il bufis? Sei stato contagiato dal bufis? Hai problemi di bufis?’ Ha tanti significati questo termine. Anche tra noi giovani, quando chiacchieriamo, e la sera ci si riunisce e parliamo tutti insieme, se c’è qualche amico che manca una sera, due sere, tre sere, ci chiediamo: ‘Ma che fine ha fatto il nostro amico? Che gli ha preso la malattia del bufis?’ È una cosa che ti nasce dentro e che è anche più forte di te, perché ti fa muovere senza renderti conto. Senti che l’anima si mette in movimento, senza rendertene conto si muove.
Ma il bufis è anche la nostalgia per qualcosa che desideri e non puoi avere. E’ un sentimento che non si può guarire, un sentimento difficilmente accontentabile. E’ difficile spiegare cosa si prova quando si ha il bufis, il sentimento che più si avvicina è l’amore.
Questo termine è nato quando è stato distrutto il governo della Somalia. Il bufis è una cosa che
esiste, ed è vero. Anche io personalmente nella mia vita ho provato che cos’è il bufis. Tempo fa, nel dicembre 2004, alcuni miei amici, che erano anche vicini di casa e siamo cresciuti insieme, giocavamo insieme a calcio e stavamo sempre insieme, poi sono andati via, ad Addis Abeba e da Addis Abeba sono andati in Inghilterra. Io quando la sera andavo a dormire, e tante volte quando stavo solo e pensavo a questi miei amici che giocavo sempre con loro, che non c’erano, che stavano in Inghilterra, e pensavo a come poterli raggiungere, ho dato tanta importanza a questo pensiero, al bufis. Io ero un po’ piccolo e i miei genitori erano contrari alla mia partenza. Fino agli inizi del 2007 altri amici sempre sono andati in Europa, alcuni in America, e quella cosa mi è cresciuta ancora dentro e l’ho sentita molto forte. Quando uno per gioco mi diceva ‘tu sei uno che vuole fare bufis’ mi arrabbiavo perché era una cosa che a me piaceva seriamente e loro mi prendevano in giro. Io ci pensavo tanto, ci pensavo così tanto che la sera non riuscivo ad addormentarmi. C’era mio fratello piccolo che sempre mi chiedeva: ‘a cosa pensi?’ E io gli dicevo: ‘vorrei andare in Canada, vorrei che i miei zii mi portassero in Canada, ma se chiedo queste cose a mamma e papà non mi lasceranno mai partire.’
Ho visto anche persone che a causa del bufis sono impazzite. Un ragazzo del mio quartiere. C’erano lui e la sorella che vivevano a Nairobi, loro avevano un contatto in Finlandia e volevano andare, avevano dei parenti là e aspettavano il ricongiungimento. È successo che hanno avuto il visto, dovevano partire una sera, avevano anche il volo pronto, ed è successo che la ragazza ha preso il volo ma il ragazzo l’hanno rifiutato dopo aver passato tutti i controlli... non si sa cosa è successo, ma all’ultimo minuto lui non è stato preso e l’aereo è partito, è stata una cosa improvvisa. Era un ragazzo che studiava, che gli piaceva studiare, sempre, ma poi non ha più pensato alla sua vita, non mangiava più, lo costringevano a mangiare. Poi ha iniziato a usare delle droghe, si denudava, è diventato pazzo, urlava.
Il bufis è una cosa reale che tocca le persone. Il bufis è quella cosa che la tua vita in quel momento desidera, vuole raggiungere, e arrivare, che però tu non la puoi avere. Una cosa che tu non potrai mai avere e raggiungere ha un valore molto alto. Il bufis è una cosa che ti viene dall’esterno, qualcosa che ti coinvolge, che ti contagia, da fuori. È una cosa che non puoi capire e non puoi toccare, è come l’amore. È un sentimento.”

E così anche tu come molti altri sei uscito, ti sei messo in viaggio, sei stato contagiato dal “bufis”.
Sei partito anche grazie a qualcuno della diaspora somala che ti ha aiutato a uscire, una zia in Olanda che era pronta a inviarti i soldi per il viaggio. E magari avevi già provato come tanti altri tuoi compagni, prima in Yemen, ma sei tornato, avevi provato in Sud Africa ma sei tornato perché anche lì per i nuovi arrivati la vita non è facile, anche lì c’è stata la caccia al somalo. Poi è stata la volta definitiva quando sei uscito in Etiopia e da lì il Sudan, la Libia.
In Libia però ti hanno fermato perché lì c’è il carcere, e sei rimasto in carcere 9 mesi, poi ti hanno rilasciato e dopo qualche giorno sei stato di nuovo arrestato in una retata a Tripoli. Quando ti hanno rilasciato sempre grazie all’aiuto di tua zia hai trovato l’intermediario per attraversare il mediterraneo, sei sbarcato a Lampedusa.
A Lambedusa che è successo? Ti hanno messo su un aereo e sei arrivato a Fiumicino e da lì con un pullman ti hanno portato a Castel Nuovo di Porto, un grande centro per 680 posti per persone come te. Lì era la Croce Rossa che ti controllava e scandiva i tuoi tempi. E magari a Castel Nuovo di Porto ti domandavi: “ma dove sono finito?”, giganteschi hangar, tutto intorno greggi di pecore, tra la Salaria e la Tiberina a 40 km da Roma. E intanto aspettavi, aspettavi la convocazione alla commissione per il riconoscimento dello status. E se chiedevi di avere un altro limone perché quello era marcio quelli annotavano sul taccuino di toglierti la razione di sigarette per una settimana, ma tanto tu non fumavi, erano per i tuoi amici, e comunque non protestavi perché crescendo hai imparato ad avere pazienza, hai imparato ad aspettare. E ti sei abituato alle lunghe attese mentre fuori la battaglia infuriava e i proiettili fischiavano tra le case a Mogadiscio, hai imparato ad aspettare in carcere in Libia, hai imparato ad aspettare in un centro C.A.R.A. di prima accoglienza gestito dalla croce Rossa per 680 persone come te.

Poi un giorno al centro è arrivato un tuo amico, Issa si chiama, che avevi conosciuto nel carcere di Kufra in Libia, e che era arrivato in Italia prima di te e che aveva conosciuto Zahra alla grande moschea di Roma e Zahra che vive da tanti anni in Italia, è sposata con un italiano, gli aveva detto che vicino Piramide, a Roma, c’è una scuola di italiano. La scuola è aperta e tutte le mattine si può andare lì a imparare la lingua italiana mentre si aspetta la commissione. E così hai cominciato a viaggiare da Castel Nuovo di Porto a Piramide, Ostiense, tutti i giorni avanti e indietro, 80 km senza però il biglietto o la tessera. E così uscivi dal centro, facevi il sottopasso dell’autostrada Roma Firenze e aspettavi il pullman Cotral sulla via Tiberina, direzione Saxa Rubra, e poi il trenino direzione Flaminio e poi la metro A direzione Termini e poi la metro B direzione Piramide-Garbatella. E magari visto che eravate tanti ad aspettare sulla Tiberina, i pendolari del pullman hanno cominciato a protestare e gli autisti hanno cominciato a non farvi salire e a chiudere le porte, ma tu che eri abituato alle battaglie di Mogadiscio che ti facevano aspettare tanto tempo e cambiare strada tante volte per arrivare a scuola, hai continuato a provarci a salire su un pullman Cotral per venire a Roma a scuola di italiano. Hai continuato a venire perché il centro d'accoglienza non è una vera e propria casa: “posso dire che sento molto più come casa mia la scuola. Alla scuola niidda aa laguu dhisaa, ti incoraggiano, ti motivano, letteralmente: ti costruiscono l'animo.”

E così hai aspettato, hai aspettato venendo a scuola e poi un giorno con il pulman da Castel Nuovo ti hanno portato alla commissione e hai fatto l’intervista, 5 minuti perché siete tanti e poi sei tornato al centro e hai ancora aspettato la risposta. Intanto continuavi a venire a scuola, poi un giorno ti hanno chiamato e ti hanno portato a prendere la risposta. All’ora di pranzo hai chiamato e hai detto: “ho trovato 3 anni”. Hai aspettato, ma adesso hai un permesso di soggiorno per tre anni, con titolo di viaggio, codice fiscale e carta di identità.
Sei tornato al centro e hai continuato a venire a scuola, poi un giorno quelli della Croce Rossa ti hanno detto: “è ora che lasci il centro, il tuo tempo è scaduto”, quella porta si stava chiudendo. Scaduto, permesso di soggiorno, aspetta, domani, girare, fila, mensa, sono le prime parole che si imparano in italiano. E così mercoledì 25 marzo 2009 sarà la tua ultima notte al centro di Castel Nuovo e giovedì mattina ti troverai sulla via Tiburtina a prendere il Cotral per venire a scuola con le valigie senza sapere dove andare a dormire.
Quando ci siamo incontrati a scuola non hai mendicato un aiuto ma ti sei limitato a dire: “senza la notte non c’è il giorno”, e volevi dire che senza un posto dove dormire non saresti più potuto venire a scuola e così ci saremmo dovuti salutare e tu arrangiare in qualche modo. Ma noi insieme ci siamo arrangiati e abbiamo trovato una stanza collettiva in uno stabile occupato nella periferia di Roma, ad Anagnina, dove vivono in più di trecento, tra somali, eritrei, etiopi e sudanesi, e hanno lasciato a disposizione una stanza comune dove chi non ha da dormire in qualunque ora può trovare un posto.
Hai addomesticato il tuo bufis, hai aperto una nuova porta attraverso la scuola e la lingua italiana ma, come hai scritto, è ancora buio:
“per un tempo sono nella notte buia, stanco spero, sono nel buio, stanco spero, la luce illuminerà, sono sicuro che l’alba arriverà”.
Ti chiami Hassan, vieni dalla Somalia, sei in Italia da 8 mesi e hai poco più di vent’anni.