Il cerchio e la scuola
Alessandro Triulzi


Ci sono vari modi di ‘stare a scuola’ per i migranti di Asinitas a Viale Ostiense a Roma. Il cerchio narrativo è uno di questi. Ne è parte intima e significante, come la voce dà vita alla parola, e la parola condivisa dà vita allo stare insieme: così il cerchio dà vita alla scuola e non viceversa. Il cerchio narrativo che conduciamo settimanalmente con un gruppo di ragazzi somali sbarcati di recente in Italia – e poco dopo arrivati nella scuola di Viale Ostiense - è diventato un motore privilegiato di comunicazione e di apprendimento, su noi e sugli altri, veicolo di emozioni, sentimenti, parole e silenzi condivisi. Ma anche di pace interna, una pacata resa a noi stessi dopo il turbinio della giornata e la sua guerra quotidiana, i continui rimbombi e rimbalzi che affiorano nei ricordi narrati che il cerchio apre e disvela.

Perché andare a scuola per molti dei nostri studenti è ancora parte di un percorso di guerra non placata che ti insegue da anni. Ti alzi al mattino tirandoti su da un mucchio di coperte condivise con altri, in un giaciglio che non è il tuo letto, un alloggio che non è la tua casa, un paese in cui sei e ti senti straniero. Vesti vestiti di altri, usati da altri, con odori e segni e strappi non tuoi, mangi cibo che non riconosci, ha sapori che non sono quelli tuoi, che non sono odori di casa. E cammini fuori, al freddo, non riconosciuto, cammini come quando eri bambino, ma ora non sei più circondato da occhi e gesti condivisi, vai avanti senza guardarti intorno, non incroci gli sguardi, guardi a terra, questa terra che non è la tua terra come tutto intorno a te ti dice, e tu ancora senti non tua. Per strada, sui mezzi, nel lungo tempo che impieghi per arrivare a scuola, il senso di guerra ritorna con le sue ferite e le sue paure, la gente che ti scarta e percuote con gesti e voci e sguardi addosso e contro, fingendo indifferenza o cecità nel vederti. Diventi così invisibile, sei tu stesso e vuoi essere invisibile, particolarmente quando ti viene addosso il trio dei controllori appena saliti sul mezzo dove stai, tu che che non puoi che essere moroso e clandestino, marrano nell’animo prima ancora che nel corpo. La guerra e la paura di guerra allora ti riprende e non vorresti essere qui, ma là dove la guerra c’è ed è vera - ma loro non lo sanno quando ti chiedono il biglietto o ti strappano il documento che ti hanno dato per dire che studi e vai a scuola come i ragazzi di tutto il mondo. Non sei più ragazzo da tempo. Eppure vai a scuola, e se ci arrivi e impari a districarti nella nebbia delle nuove parole che impari insieme a gesti e sguardi che cominci a riconoscere, la guerra interna, la più dura, comincia a diradarsi dentro e il groppo in gola sembra sciogliersi insieme ai ricordi più brutti. E’ così che inizia il cerchio del ricordare insieme, il racconto che ferisce e che libera. Qualcosa che temi e allontani fino a quando non ti prende, come il bufis, la voglia di partire e andare oltre, il continuo pendolare per trovare acqua e pascoli dei nomadi somali.

Così con Marco e Igiaba e Dag e Zahra e Sinti raccogliamo le sedie sparse al termine della mattinata, le mettiamo in cerchio, chiamiamo i ragazzi somali che si aggirano tra noi a smaltire il piatto di pasta o minestrone allo zenzero cotto da Hawa o da Marco al termine delle lezioni. Aspettiamo che tutti si siedano. Che si faccia silenzio. Ogni volta ti chiedi come andrà oggi, se Farhan parlerà come la volta scorsa del conflitto con suo padre, o delle telefonate di rimprovero della moglie a lui nello Yemen, poi in Sudafrica e ora in Italia, lui che non può tornare e nemmeno ripartire perché questa è la vita del migrante clandestino, e se Hassan vorrà ricordare i giorni di scuola mentre lui era bambino e fuori c’era la guerra, e se Abubakr vorrà riprendere la storia del suo viaggio iniziato al culmine dello scontro tra clan. Qualcuno tra noi teme anche che la guerra, quella nostra, si sposti sempre più vicino, appena fuori dalla nostra scuola, tra la gente e le istituzioni cittadine sempre più in preda a voci e dicerie e false notizie (come quelle che animano le guerre da sempre), per dare inizio alla caccia allo straniero, al diverso, al nemico, l’invasore che ruba il lavoro e la casa e i soldi ai nostri figli, che stupra le nostre donne, che uccide e va cacciato, se non ucciso. E se non cacciato o ucciso, può restare ma come diciamo noi, seguendo le nostre regole e leggi e antiche pratiche di sopravvivenza e di comando. Che abbassi la testa insomma, come ogni guerra vuole si faccia dell’altro, e accetti finalmente di stare tra noi non come se fosse noi ma come lui è, un altro appunto, un diverso, che ha bisogno di altre leggi e norme e salvaguardie da quelle nostre, perdio.

Siamo ora tutti seduti in cerchio, prendiamo fiato, c’è un silenzio denso di attesa come sempre agli inizi, non parliamo, mentre i rumori della giornata che si chiude si smorzano intorno a noi inducendo al raccoglimento. Poi Zahra (la ‘madre piccola’ del gruppo) dà voce a un canto somalo, presto seguita da una due tre voci che la seguono, la incalzano, la sopravanzano nel canto che prende vigore e trasmette la prima e più grande emozione, quella di tornare nella lingua propria, non la lingua dell’esilio, la ‘lingua tagliata’ di Sujata Bhatt, ma la lingua di casa, della madre, dell’infanzia, il paese che non c’è più, e va ricreato continuamente nei racconti per ridargli vita e spessore, la Mogadiscio amata e poi distrutta, la casa dell’infanzia e della fuga, il luogo della disperazione, del dolore e del ricordo. Uno di noi annuncia il tema, il dentro e il fuori nel paese in guerra, il ricordo di casa prima del viaggio, e della scuola lasciata a metà, ora ripresa da zero, in un paese e una lingua straniera, quella nostra. Leggiamo un brano di un dottorando somalo de l’Orientale di Napoli, Hassan Mohamed, Morire a Mogadiscio (Quaderno 2, Africa e Mediterraneo 1993) colto dalla guerra mentre faceva ricerca e imprigionato in casa tra nipoti urlanti armati di fucili e sorelle spaventate. Mentre leggiamo, ci rendiamo conto che siamo tutti, in qualche modo, dentro e fuori, ‘stranieri a noi stessi’ nella nostra stessa società.

Poi parla Dag. Dag è uno dei nostri, un rifugiato politico dall’Etiopia, già studente in legge all’Università di Addis Abeba, venuto in Italia dopo la repressione del movimento di opposizione al governo etnicista di Melles Zenawi, co-autore insieme a Andrea Segre e Riccardo Biadene del film Come un uomo sulla terra. Il film è stato girato a scuola, tra i migranti etiopi che hanno attraversato il deserto libico e si sono imbarcati per l’Italia dopo aver sofferto la violenza e la repressione della polizia locale alleata di quella italiana nella comune lotta ai ‘subsahariani’ in fuga. Dag parla a bassa voce, come tutti gli etiopi, ma con trasporto e convinzione. Parla di sé e del suo viaggio, dell’impossibilità di comunicare la decisione di partire alla sua famiglia, soprattutto a suo padre, ferroviere della Compagnia di treni Gibuti-Addis Abeba, lui che aveva sempre voluto che i figli studiassero e che voleva tutti vicino a sé. E che prima aveva visto partire una figlia, seguita dalla moglie, e ora dal figlio Dag, lo studente in legge, per cercare tutti fortuna o mestiere oltre confine. A casa è rimasta solo la nonna e i fratelli più piccoli. Dag parla dei disordini a Addis Abeba che hanno fatto seguito alle elezioni truccate del 2005, e della fuga di molti giovani come lui dopo la repressione della polizia. Parla anche dell’importanza di narrare e ricordare cosa succede a tutti i migranti dal momento della partenza al momento dell’arrivo. Qualcuno ricorda l’importanza per il gruppo narrante di collegare il qui e il là della migrazione, sondare la doppia assenza descritta da Abdelmalek Sayad, il vuoto che si lascia nel paese di partenza e quello che si trova nel paese di residenza. Parlare e aprirsi permette di riempire di significati questo vuoto, di renderlo meno disabitato, ricostruendo attraverso la memoria e il ricordo le presenze, le aspettative, le ansie, le ferite del migrare, la partenza e il viaggio, i traumi e le violenze, ma anche le ricchezze e gli insegnamenti, del percorso migratorio e dei suoi tracciati di apprendimento e di sopravvivenza.

Così il cerchio si schiude, e con esso i partecipanti, che fanno entrare al suo interno ricordi e emozioni che trasmettono agli altri condividendo con essi attese, speranze e delusioni. La narrazione non è sempre lineare, e va a volte ‘fuori tema’, ma se condotta con efficacia e intelligenza rimbalza da sedia in sedia mettendo in questione chi vi è seduto sopra, incrociando sguardi, percorsi e storie diverse, suscitando improvvisi ricordi e spessi silenzi, e contribuendo a costruire lo stare insieme nella, e della, scuola, il suo mondo di valori, di esperienze e di diversità condivise.

Ripercorro con la mente il faticoso percorso degli inizi. Le lezioni e gli incontri con Marco e Cecilia a via Catania a fine anni Novanta, dove la scuola è partita sotto la temporanea protezione di Medici contro la tortura, le prime sedute a cerchio con i migranti allora in prevalenza sudanesi (era in corso il conflitto nel Dar Fur), le prime narrazioni di vita e di viaggio, le storie raccolte di Woldu, contadino eritreo insabbiato in Italia con una storia di attese e delusioni durata più anni prima di ottenere un dolente e temporaneo permesso umanitario, e di Taiba, la giovane donna Oromo, madre del piccolo Robera, e militante del movimento di liberazione degli Oromo, incarcerata in Etiopia e poi trattenuta dapprima nel suo paese, poi in Sudan, dove si sposa e ha un figlio da un militante che verrà imprigionato a seguito di nuovi accordi tra il governo etiopico e quello sudanese. Poi la decisione improvvisa di partire per salvare almeno lei e suo figlio, il trauma del viaggio attraverso la Libia, il lavoro umiliante come serva tuttofare per raccogliere i soldi per la traversata per l’Italia, il quasi naufragio, e l’approdo a Via Catania senza niente addosso ma con una straordinaria determinazione, lei donna semianalfabeta, a rivendicare i suoi diritti di madre e di rifugiata politica nel nostro paese. Poi, improvvisamente, dopo aver fatto parte del movimento di occupazione delle case e partecipato ad alcune di esse, la sua decisione, non comunicata nemmeno a noi, suo gruppo di riferimento e supporto, di ripartire per il nord, e la telefonata dalla Svezia, quasi sbarazzina, dove ci ha comunicato di aver trovato l’antico partner, una migliore situazione, e di non preoccuparsi per lei. Anche i cerchi, per fortuna, si aprono e le vite si confondono insieme con le loro storie.

Erano gli anni, allora, dei magazzini occupati di Tiburtina, dove vivevano insieme qualche centinaio di migranti sudanesi, etiopi ed eritrei che offrivano a chi arrivava e a chi partiva una base di appoggio e un luogo dove sostare e riprendersi in vista di nuove partenze e percorsi. C’era allora meno controllo, e forse meno senso di insicurezza tra la gente, e i locali occupati di Tiburtina vennero presto inondati dalla televisione e dai media che chiamavano “Hotel Africa” i magazzini occupati, luogo di riunione ma anche di feste, di disperazione ma anche di intelligenze creative, con piccoli ristoranti etnici, servizi di lavanderia, taglio capelli, e giochi del calcetto sistemati alla bene meglio che attiravano curiosi e i bene come i male intenzionati. E lì che si saldarono le prime amicizie e sodalizi di lavoro e il nostro stare insieme con e per i migranti, a scuola, nella protesta (fallita) contro la chiusura dei magazzini, la richiesta (inascoltata) di non disperdere la straordinaria esperienza collettiva di autogestione, e il travolgente e scomposto sgombero ordinato dalla giunta Veltroni. La memoria di Tiburtina, ora che il luogo si sta trasformando in centro ipertecnologico di scambio e consumi, è ancora tutta da raccogliere.

Ma il cerchio, o l’idea del cerchio come comunità di migranti resistenti e di residenti ostinati ha tenuto duro, si è ampliata nelle modalità di rappresentazione (film, audiovisivi, laboratori) e nei canali di comunicazione e diffusione di conoscenze (blog interattivi, videolettere, il progetto luoghi comuni da esporre nei bus e nelle metropolitane), si è trasformata in iniziative didattiche extra mura e di autorappresentazione prima finanziate da una Fondazione bancaria (Unidea), e poi da un’altra specializzata nel mondo della comunicazione (Lettera27) che appoggia oggi il nostro lavoro insieme alla continua solidarietà della Chiesa Valdese, della Fondazione Charlemagne che appoggia il supporto alle donne e madri migranti nella scuola di via Pisacane, e ai molti volontari che, con la loro presenza, il loro contributo e supporto esterno permettono tutti i giorni a noi di aprire la scuola, e di stare provocatoriamente insieme in un paese che ci vuole disuniti e separati, e che sempre più preannuncia ai migranti nuovi percorsi di guerra e di esclusione.

Mantenere vivi i cerchi narrativi e simbolici che si sono creati in questi anni tra noi e loro diventa così atto di resistenza e di fede in una umanità non divisa, un atto di obiezione di coscienza contro la guerra in corso, in Italia e in Europa, contro le migrazioni dai paesi poveri, e soprattutto contro il perdurare di condizioni di vita e di lavoro di lavoratori stranieri indegne di un paese civile, come il nostro manifestamente non è specie nei suoi ultimi pronunciamenti e atti legislativi, ma anche nei sentimenti sempre più diffusi – e consciamente alimentati – tra la gente comune. L’esperienza maturata in questi anni ci permette di andare avanti con maggiore consapevolezza delle difficoltà e delle sfide, e con la maggiore esperienza derivata dagli sbagli e dalle omissioni oltre che dai traguardi raggiunti e dalle fatiche ricompensate da successo. La disobbedienza civile questo ci ha insegnato: che la si deve mettere in atto non come un optional, ma necessariamente, per cercare di opporsi non solo simbolicamente alla frantumazione dei valori e delle responsabilità collettive in corso nel nostro paese. Il messaggio del cerchio è che bisogna in qualche modo ‘accerchiarci’ tra noi, se non vogliamo venire accerchiati dall’esterno.

PS. In uno degli ultimi cerchi, per due ore, abbiamo discusso di casa (house) e di focolare (home), di cosa i migranti portano via nelle loro borse o valigie al momento della partenza, e di come società nomadi come quella somala siano state rodate dal tempo e dagli uomini agli spostamenti individuali e di gruppo (così un ragazzo ci aveva ricordato la natura nomade dei pastori somali, qooro lusho aa qeyrka ku jira, trovano pace solo i testicoli che dondolano). Al termine della faticosa sessione, ci stavamo tutti alzando, quando uno di loro, chiedendo scusa, ha posto a me, anziano del gruppo, le seguenti domande: ‘Mu’allim, tu che hai studiato, e hai esperienza, e per primo hai introdotto il discorso sulla casa e il focolare, ci puoi dire che cosa è per te la casa, e cosa metteresti nella tua valigia se fossi costretto a partire?’ E mentre cercavo di trovare una risposta che spiegasse il disagio di chi non si sente mai veramente dentro, nemmeno a casa propria, e pensavo affannosamente a oggetti o ricordi da mettere nella valigia di una improvvisa partenza senza ritorno, un altro dei ragazzi somali che ha sperimentato una tripla migrazione, prima nello Yemen, poi in Sudafrica e ora in Italia, mi ha chiesto nella stessa logica di tutti i saltatori di frontiere: noi che siamo pastori di bestiame e siamo abituati a portare i nostri pascoli à dove c’è appena più umidità e un po’ di erba anche rada, ci puoi dire se stiamo portando il gregge nella direzione giusta? Abbiamo fatto bene a venire da voi?