Diario di bordo
Igiaba Scego

Nel 2008 sono sbarcati molti somali a Lampedusa. Ragazzi e ragazze giovani, dai 16 ai 25 anni. Nati e cresciuti nella guerra. Loro non si ricordano di com’era buono il gelato alla crema di Jumbo Gelato a Via Roma al centro di Mogadiscio, non hanno memoria dei palazzi bianchi di Brava, non hanno visto pascolare in santa pace le pecore (ora si pascola con il kalashnikov in spalla, per sparare a iene e umani). Non hanno molti bei ricordi i ragazzi che scappano oggi. Hanno solo sogni. I somali della diaspora, quelli venuti in Occidente negli ’70, ’80, ’90 denigrano i nuovi venuti. Hanno coniato un nuovo vocabolo per indicare chi si fa il viaggio attraverso il Sahara per poi approdare in Libia e da li in una carretta che se tutto va bene approderà a Lampedusa. Il nuovo vocabolo è Titanic come la nave affondata durante il viaggio di inaugurazione nel 1912 e come (i ragazzi rifugiati hanno più in mente questo) il film del 1997 regia di James Cameron con Leonardo di Caprio e Kate Winslet. Ai ragazzi non piace essere chiamati così, non c’è rispetto trovano. Ed effettivamente hanno ragione. È qualcosa di molto grave quello che viene fatto da chi li ha preceduti, dai loro fratelli migrati in Occidente prima di loro. La gravità è nel cancellare la memoria, denigrarla, ridurla in frantumi. Questo perché chi è emigrato da tempo vorrebbe solo dimenticare. Il dolore dei nuovi venuti mette di nuovo tutto in discussione.
Non è facile ricollegarsi ad un paese reale. Di solito la Somalia che ha in mente la diaspora è quella di una memoria cristallizzata. Una memoria piena di icone e forse anche di stereotipi. Una memoria che si costruisce su simboli chiari e precisi: la stella della bandiera, il giorno dell’indipendenza, il cammello, le canzoni Wadani, la cultura orale tradizionale. La Somalia di oggi viene presa in considerazione solo come gioco politico e ogni tanto salta fuori un dettaglio raccapricciante di una violenza particolarmente efferata che ha la funzione di mero pettegolezzo da cronaca nera. Il resto è una lunga lista di nomi. I rifugiati non hanno mai troppo spazio. Il loro viaggio viene raccontato a sommi capi alla diaspora, anche quando a fare il viaggio è una persona cara, non sai mai fino in fondo quello che è successo alla tua persona. Il racconto fatto a te parente è edulcorato, ripulito, riveduto, corretto. Si parla più di sogni futuri, la riflessione sul viaggio nelle famiglie come anche nello spazio pubblico è assente. Quando Sandro Triulzi dell’Università Orientale di Napoli mi ha proposto di lavorare con lui, Dagmawi Ymer e Marco Carsetti (entrambi della scuola Asinitas) sui rifugiati somali, ho detto si con entusiasmo. Ho cominciato senza sospettare che il tutto avrebbe preso una forma imprevista, che non solo avrei saputo molto di più sulla vita dei rifugiati, sulle dinamiche del viaggio, ma avrei scoperto molte cose in più sulla mia persona, ossia sul mio essere somala d’Italia, italiana di Somalia. Non sapevo all’inizio quanto mi sarei messa in gioco.
La scelta di scrivere un diario di bordo è stata una conseguenza logica. Non volevo perdermi l’emotività (di tutti non solo dei ragazzi rifugiati), le mie riflessioni, il nostro patire, il nostro amare, il nostro stare insieme. Volevo salvaguardare lo tsunami di emozioni che ruotavano intorno a tutto questo lavoro. Il diario mi è sembrato l’unico supporto possibile. Un diario è una forma narrativa in cui il racconto si sviluppa cronologicamente. Il diario di solito è scandito da intervalli di tempo regolari. Può essere la cronaca della vita o di un periodo di vita di una persona, Poi naturalmente c’è il diario di bordo. Io mi sono ricordata quello di Star Trek, una delle prime serie Tv fantascientifiche andate in onda sui canali televisivi di tutto il mondo e in generale ogni esploratore ne ha uno. Gli esploratori sono legati a doppio nodo con il colonialismo. Io non mi sento una persona al di sopra del gruppo, anzi. Io non esploro, il diario non è solo una visione di me dell’altro, ma una indagine di me anche attraverso l’altro. È un passaggio di conoscenze. Attraverso questo cerchio narrativo (e tutto quello che si formerà intorno ad esso) noi relazioniamo i saperi. Orali, scritti, tradizionali, alternativi.
Il diario di bordo è solo uno strumento che mi aiuta a capire, poi del resto ha da sempre aiutato viaggiatori di ogni specie ad appuntare le varie fasi di un viaggio, soprattutto gli imprevisti. Mi sono detta che gli imprevisti nel nostro viaggio, fatto di noi tutti in cerchio che parlavamo di noi e della nostra interiorità era un’impresa che andava appuntata.Il Diario di bordo riguarda gli incontri del 3 e 10 Febbraio 2009.

L’altra settimana non sono riuscita a scrivere nemmeno una riga.
Motivo? Inadeguatezza. La mia.
Inadeguatezza, si. Questo è il sentimento che ho provato.
Avevo bisogno di tempo per capire tutte le sensazioni che hanno attraversato il mio corpo. Ho passato una settimana a tormentare (benignamente) tutto il gruppo con mail e telefonate. Peggio di una pena d’amore adolescenziale. Mi sono attaccata a Pc e telefono come una disperata. Ma alla fine ho capito confrontandomi con i sentimenti degli altri il perché del nostro percorso. Ho capito che tutto è in divenire, una sorpresa continua. Devo essere pronta a fronteggiare le raffiche del mio cuore. Perché non è un lavoro d’ufficio questo, ma coinvolge la sfera più intima del nostro fragile essere umano. È come essere innamorati, niente è sicuro, tutto cambia, la paura è costante, ma anche la gioia. E non ci rinunceresti per niente al mondo.

Ma cosa mi è successo? Non saprei dire con esattezza, diciamo che ero seduta nel cerchio insieme ai ragazzi somali, a Marco, Sandro, Dag, Zahra e mi sono sentita una ficcanaso. Ero la brava scolara con la sua pennina e il suo bloc notes che era venuta a fare la ricercatrice, la scrittrice o Dio sa cosa diavolo altro. In realtà so di non essere la brava scolara con la sua pennina, anche perché pur essendo una scrittrice con le penne sono sempre stata sfortunata. Di solito perdo tutti i tappi. Ma ho provato quello che ho provato e prima di scrivere cosa abbiamo fatto con i ragazzi, prima di scrivere cosa hanno detto e soprattutto come lo hanno detto, ecco, mi serve riflettere anche sul mio ruolo. Devo soffermarmi su di me. È basilare per poter continuare questo percorso.

So di non aver mai pensato a questo lavoro sulla memoria come una maestrina, anzi il mio atteggiamento esteriore e interiore è sempre stato di profondo rispetto e non c’è mai stato nulla di predatorio nel mio chiedere, relazionarmi, parlare, discutere. Con i ragazzi ho un buon rapporto. C’è feeling. Anche perché è facile fare amicizia con loro, sono aperti, coraggiosi, ironici, autoironici e con molta voglia di comunicare. E poi la qualità che mi piace di più in loro è questo non giudicare. Con i somali della diaspora (con quelli del Minessota, di Manchester, di Stoccolma, di Rotterdam, di Roma, di Milano, di Gibuti, di qualsiasi posto) questo per esempio non è garantito. Spesso vieni giudicato. Io per esempio vengo spesso giudicata perché non ho marito (e meno male non sanno delle mie storie tragicomiche!!), non ho figli, mi vesto all’occidentale, scrivo, rimango a vivere in Italia. Su questo ultimo punto poi, rimanere a vivere in Italia, di solito subisco attacchi violenti anche. Di gente, mai famigliari, che mi dice con una certa insolenza “ma perché insisti nel stare in questa merda di paese? Vattene no? I tuoi stanno fuori e tu che aspetti? Poi sei anche Dob (zitella)…insomma se vai via da quel paese ti sistemi”. Se poi dico “è il mio paese”, mi guardano anche peggio. È difficile spiegare che nel bene e nel molto male l’Italia è il mio paese, al pari della Somalia. Difficile da comprendere o da digerire. Invece per i ragazzi conta quello che vedono, come ti percepiscono all’impronta, ti guardano negli occhi e traggono le conseguenze dai tuoi modi del presente, non dalle tue scelte. Questo mi piace. Quindi il mio, chiamiamolo così, dilemma esistenziale non veniva tanto dai partecipanti, quanto dalla modalità. Era il cerchio narrativo a mettermi in crisi. Era il cerchio, la forma, io dentro questa forma a farmi sentire inadeguata. In un certo senso ho capito solo stando dentro il cerchio quanto io stessa fossi esposta…non esposta allo sguardo degli altri, ma soprattutto esposta al mio sguardo, quello di me su di me. Ascoltando, guardando le facce di tutti, sentendo il rumore dei respiri di tutti quelli che stavano lì, ecco io sentivo amplificato anche il mio respiro. Ho capito che il cerchio è qualcosa che ti mette in comunione, che ti aiuta a mettere a fuoco, che ti impedisce la solitudine. Il cerchio, non a caso, è una delle figure che ricorre con più frequenza nell’opera del mio amico filosofo della Guinea Bissau Filomeno Lopes. Nel suo Filosofia intorno al fuoco Filomeno dice che i tesori di saggezza delle culture tradizionali africane sono contenuti nei proverbi, nei detti e soprattutto nella complessa arte della 'Palabre', la parola viva dei narratori di racconti che si alternano, dialogano, cantano per ore nelle riunioni notturne delle comunità di villaggio intorno al fuoco.
In un lampo capisco che è questa forma a farmi paura per la sua estrema bellezza. Mia madre è stata nomade, fino agli 8 anni (o 9 non sa la data di nascita, si contava il tempo attraverso altre misure, il calendario gregoriano non era la loro misura) e mi ha raccontato di queste riunioni, di questi cerchi, di questi racconti infiniti dove si passava dalle favole con le iene crudeli all’alta politica. È una forma che ci collega a momenti ancestrali della stessa umanità. È il raccoglimento che io donna urbanizzata semioccidentale ho perso per strada. È qualcosa di mio che torna.
Ma al momento non avevo capito che era questo ritorno a mettermi in crisi.

Abbiamo avuto già due incontri. Uno il 3 Febbraio. Uno il 10 Febbraio.
Il primo è stato molto interessante. Il secondo è stato più caotico, ma sempre interessante. Forse interessante non è la parola adeguata, ma da l’idea di quello che è successo. Invece di interessante potrei anche dire commovente, intenso, particolare,energico, carico,appassionante, impressionante, coinvolgente….ogni parola si adatta alla perfezione a quello che abbiamo vissuto all’interno del cerchio narrativo.
Entrambi gli incontri sono serviti a chiarire le modalità di conduzione del cerchio. Da questo caos sta pian pianino emergendo una serie di regole.

Nei ragazzi la loro storia è si personale, ma anche collettiva. È Farhan, Hassan, Abubakr, ma sono tutti. Ecco perché la modalità di entrare e uscire dal racconto per loro è molto importante. Ho notato che iniziano e finiscono con le stesse frasi e anche quando devono aggiungere qualcosa usano la stessa formula. È un fluire dolce il loro discorso, ma anche codificato. C’è anche qualcosa di rituale nel parlare. Per esempio il ciclo di ogni vicenda spesso ruota intorno ad una parola chiave e questa rende possibile ogni volta entrare e uscire da una fase di vita. Questo mi è risultato chiaro dal racconto del piccolo Hassan. La sua parola chiave era raajo ossia speranza. La sua vita di studente costellata da queste aperture e chiusure, “con il governo tal dei tali nasceva in noi una nuova speranza….ma poi con la presa di potere di tal dei tali la speranza moriva nuovamente”. Era un continuo nascere e morire. Hassan come Gesù Cristo resuscitava ad ogni nuova fase. Più o meno, anche con logiche differenze di contenuto, questo è stato il modo di procedere nella narrazione di quasi tutti.

Ci hanno raccontato tante cose su cui vorrei ritornare con la traduzione della sbobinatura audio, ma sono storie che mi hanno colpito per le grosse verità racchiuse dentro. Non svelano tutto di loro stessi, non vogliono o non possono. Il passato in Somalia, chi più chi meno, è stato doloroso. Dopotutto la Somalia è un paese che vive in guerra da 18 anni. Molti di loro hanno visto solo quella e anche chi ha visto un fugace altro si ricorda solo di quella. La guerra è qualcosa che non è facile da digerire e nemmeno da raccontare. Loro ci hanno raccontato qualcosa di loro, non so se sia tutto corrispondente al vero. Ma come ha detto Sandro dopo un trauma di questo genere c’è la necessità anche delle bugie. Il gruppo però è coeso, autentico. C’è in loro una lievitazione del passato e anche del duro presente. Non sono persone sprovvedute, anzi. Hanno degli obbiettivi segreti, ancora sperano nei loro sogni. Questo mi fa ben sperare per il loro futuro. Anche Farhan che è (almeno a mio parere) la persona più fragile è pieno di ottimismo. È più ottimista di molti miei amici e amiche che hanno doppia casa, doppio stipendio e amori annoiati. Lui non ha niente, ha se stesso, ma questo lo sorregge, finché ha se stesso ha qualcosa e tutto è possibile. Ha una grande forza quel ragazzo. La sua storia mi è rimasta impressa più delle altre. Forse per questi continui spostamenti, per questo riposo negato. Nella mia mente Farhan è un po’ Ulisse. Gira, Gira, Gira il mondo, ma nel suo cuore (lo so!!) l’unico pensiero è quello di riunirsi con la moglie e i figli. Ha viaggiato per tre continenti Farhan. È andato in Yemen, Arabia Saudita, Sud Africa e poi qui via Libia. Anche dentro la Somalia ha vagato, sfollato da un posto all’altro. Ha uno sguardo dolce. Ha anche una paralisi al viso. È più grande degli altri. È intorno ai 30 anni. Nella sua storia oltre i viaggi quello che colpisce è la sua completa franchezza nel descrivere i rapporti famigliari. Per esempio ha descritto il suo rapporto di grande amore con la madre e di grande freddezza con il padre. La madre ritorna in altri racconti, sono le madri che si accollano spesso il peso di una decisione, sono loro che spingono i figli verso il viaggio. Meglio tentare di vivere facendo un viaggio pericoloso che marcire in una Somalia che uccide ogni speranza, è la filosofia delle madri dei ragazzi. Le madri, le zie (Cristina direbbe le ‘madri piccole’), le sorelle hanno un ruolo di supporto sempre. I padri o sono morti (come nel caso di Abubakr) o sono addirittura un ostacolo alla vita. Farhan descrive la freddezza con il padre con due parole, non aggiunge una virgola in più. Dice e chiude. Ho molto pensato a questo e credo che un po’ dipende anche dal fatto che noi diamo l’input con le nostre storie. Il caso ha voluto che Sandro abbia parlato di suo padre, del rapporto difficile con lui….sono sicura che questa cosa ha colpito molto Farhan che poi ha aggiunto questo particolare alla sua storia.

In generale il ruolo di Sandro è importantissimo. Lui per loro è la figura di riferimento. È colui che li rassicura. Lo vedono come saggio, buono, padre magnanimo. Il Mu’allim, il maestro. Non ricordo chi, ma qualcuno ha detto “quando c’è Sandro impariamo”.

In ogni storia c’è una voglia di enucleare anche l’obbiettivo del viaggio. Per fare un esempio Hassan dice sempre “io voglio studiare”, sottolinea questa parola con tutta la sua forza. Io spero tanto che nella vita che lo aspetta riuscirà a farlo.

Però mi chiedo se Farhan sia stato davvero un meccanico? C’è molto pudore di parlare della guerra fatta. Solo un ragazzo, uno che non viene a fare questo laboratorio (mi chiedo se sia ancora in Italia), mi ha detto che lui combatteva per le corti islamiche. Era un ragazzo soldato. Ha avuto un problema con la commissione territoriale perché ingenuamente ha detto questa verità. Le commissioni non vogliono sapere cosa hai veramente fatto. Se hai sparato sei automaticamente carnefice. Ma sarà proprio vero? E chi non ha avuto altra scelta?
Come ha detto un ragazzo (ancora non ho imparato tutti i nomi, mi devo sbrigare a farlo!!) “lo isbaroo (‘sparo’) è l’unico lavoro che si trova lì…almeno è il più diffuso”.
Se penso che mia madre ha sparato in guerra…lei i primi due anni di guerra civile è rimasta in Somalia e mi ha detto che spesso non hai scelta, ti devi difendere. Penso anche che i ragazzi non avevano scelta. Credo che abbiano intrapreso il viaggio anche per fuggire da un paese dove puoi solo sparare.
Però ho capito che l’importante non è capire se il dato X è vero e il dato Y no. Quello verrà fuori con il tempo forse. Ma è importante registrare le sfumature. Quando Farhan dice che “nel lavoro, in ogni cosa che ti succede devi guardare dritto negli occhi e capire se quella persona è affidabile o ti riserva un’amara sorpresa”. Ecco queste frasi sono da registrare, annotare, commentare, analizzare. Perché danno il senso di cosa significa vivere in uno stato di guerra permanente. La guerra è fatta anche di sfumature violente.

Idris nell’ultimo incontro ha sottolineato una grande verità. Ha detto con un candore incredibile che “lui preferisce ascoltare. Poi forse parlerà”. Idris è di Gibuti, non somalo. Ma ha fatto il viaggio con i somali. Alla commissione non potrà dire da dove viene. Si è inventato un’altra identità e non solo l’ha imparata a memoria, ma cerca di viverla per renderla verosimile. Non parla più con l’accento del somalo di gibuti, ha aperto tutte le vocali chiuse, una specie di Veneto che tenta di trasformarsi in napoletano. Il gruppo somalo lo ha accolto a braccia aperte, lo sostiene. Lui però ancora non si è aperto del tutto. Ma dicendo “io preferisco ascoltare” ha sottolineato la sua partecipazione emotiva a qualcosa che non ha vissuto sulla sua pelle (la guerra), ma che capisce per vicinanza emotiva.
In un certo senso Idris ha detto quello che avrei voluto dire anch’io. Io in questo lavoro mi sento un grande orecchio. Non è facile l’ascolto. In una società come la nostra abituata a parlarsi addosso ascoltare è un miraggio.
Ascoltare è il dono più grande che mi/ci stanno dando. Ci donano storie che noi stiamo ascoltando. Non è scontato.
È una grande lezione che ci stanno dando. Imparare di nuovo ad ascoltare.